lunedì 15 febbraio 2016

Trombocitemia essenziale e Mielofibrosi prefibrotica nei pazienti under 40: quale futuro?

L’assenza di criteri certi e univoci che permettano di distinguere con un certo margine di sicurezza la trombocitemia essenziale dalla mielofibrosi prefibrotica, unitamente al fatto che tale malattia, già rara di per sé, è ancora meno comune nei pazienti con meno di 40 anni alla diagnosi, rende spesso difficile per un neodiagnosticato di giovane età comprendere quali siano, nel breve termine, i rischi di eventi avversi e quanto, nel lungo periodo, la malattia mieloproliferativa possa incidere sulla sua aspettativa di vita.
Un recente studio condotto da ricercatori scientifici italiani dell’Istituto Seràgnoli di Bologna, pubblicato qualche mese fa su Leukemia, ha consentito di analizzare nel dettaglio il decorso della trombocitemia essenziale in 197 pazienti e della mielofibrosi prefibrotica in altri 20, distinguendo altresì i pazienti in virtù della mutazione driver (JAK2 o CALR, i tre casi di MPL sono stati omessi dall’esame) durante un follow up medio di circa 10 anni (età media dei pazienti arruolati: 34 anni).

E’ da rilevare preliminarmente che a 15 anni dalla diagnosi la sopravvivenza generale è stata del 99.3% nei pazienti affetti da trombocitemia essenziale e del 100% in quelli affetti da mielofibrosi prefibrotica: a differenza di altri studi, basati principalmente su pazienti con un età media di 60 anni,  non si sono ravvisate differenze significative né dal punto di vista del decorso della malattia libera da progressione in mielofibrosi (94.7% nei casi di TE rispetto al 100% nella preMF a 15 anni), né da quello di complicanze emorragiche (presenti nel 6.4% dei pazienti con TE, rispetto all’11.1% dei pazienti con pre MF); significativa, invece, la differenza nell’incidenza di eventi trombotici registrati: 13.9% nei casi di TE vs il 34.4% nei pazienti con pre MF: l’analisi incrociata di tali dati ha permesso agli autori dello studio di individuare la Combined Event Free Survival di tali pazienti (vale a dire la possibilità di non subire alcuno dei tre eventi di rischio) ed è risultata dell’80.9% nei pazienti con TE rispetto al 65.6% nei pazienti con pre MF.
L’analisi dei pazienti ripartiti per status mutazionale ha consentito di individuare un tasso di incidenza di eventi trombotici, a 15 anni dalla diagnosi, del 22% nei pazienti JAK positivi, a fronte del 9% circa dei pazienti con mutazione CALR, in linea con studi precedenti; tuttavia, come già emerso in altre pubblicazioni scientifiche, nessuna differenza di sopravvivenza è stata ravvisata a 20 anni dalla diagnosi nei due sottogruppi (96% nei JAK positivi e 100% nei CALR), né una diversa incidenza di evoluzione in mielofibrosi o leucemia acuta (il tasso complessivo registrato nella coorte di pazienti è stato del 3% a 15 anni e del 13% a 20 anni).
Di particolare interesse si è rivelata la circostanza che nessuno dei 28 c.d. “tripli negativi” (cioè pazienti privi sia della mutazione JAK, che della CALR e della MPL) abbia subito un evento di rischio, per una Combined Event Free Survival del 100%: questi dati sono in linea con altri studi più recenti, dove inizia a delinearsi la motivata convinzione che alcuni di questi pazienti possano avere una forma di trombocitosi non clonale e/o ereditaria e non siano quindi da ritenere affetti da TE (sebbene in altri studi siano state segnalate mutazioni minori di JAK2 e MPL in una minima parte di pazienti “tripli negativi”).
Infine, circa il 5% dell’intera coorte ha sviluppato una seconda neoplasia: sebbene l’intervallo di tempo sia stato notevolmente lungo dalla diagnosi iniziale di trombocitemia essenziale / mielofibrosi prefibrotica (circa 16 anni), la maggior parte dei pazienti aveva meno di 55 anni alla seconda diagnosi; tuttavia, considerando il tipo di neoplasia, nessun aumento del rischio è stato ravvisato e tutti i pazienti sono sopravvissuti ad essa, sebbene appaia evidente l’impatto a lungo termine che una malattia mieoloproliferativa comporta se diagnosticata in giovani pazienti.
Sarebbe auspicabile, al fine di una corretta gestione di tali pazienti che sappia tener conto delle complicanze a lungo termine della malattia, ripensare gli approcci terapeutici alla luce delle recenti e promettenti scoperte cliniche e molecolari, al fine di stratificare con maggior precisione il rischio trombotico nei singoli pazienti, selezionare con maggiore accuratezza chi necessita di un trattamento citoriduttivo e chi può essere invece monitorato senza alcun intervento farmacologico, e soprattutto, aspetto di importanza fondamentale per un giovane paziente con diagnosi di neoplasia mieloproliferativa cronica, cercare di rallentare la progressione della malattia: numerose, in quest’ultimo ambito, le evidenze circa la capacità dell’interferone (specialmente se a basse dosi, più tollerabili, e nelle sue modalità a lungo rilascio) di ottenere risposte cliniche e molecolari complete nei pazienti, con ciò suggerendo la diffusa convinzione, sempre più condivisa dalla comunità scientifica internazionale di poter agire efficacemente (e precocemente) sulla storia naturale della malattia.(D.S.)

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