L’assenza di criteri certi e
univoci che permettano di distinguere con un certo margine di sicurezza la
trombocitemia essenziale dalla mielofibrosi prefibrotica, unitamente al fatto
che tale malattia, già rara di per sé, è ancora meno comune nei pazienti con
meno di 40 anni alla diagnosi, rende spesso difficile per un neodiagnosticato
di giovane età comprendere quali siano, nel breve termine, i rischi di eventi avversi
e quanto, nel lungo periodo, la malattia mieloproliferativa possa incidere
sulla sua aspettativa di vita.
Un recente studio condotto da
ricercatori scientifici italiani dell’Istituto Seràgnoli di Bologna, pubblicato
qualche mese fa su Leukemia, ha consentito
di analizzare nel dettaglio il decorso della trombocitemia essenziale in 197
pazienti e della mielofibrosi prefibrotica in altri 20, distinguendo altresì i
pazienti in virtù della mutazione driver (JAK2 o CALR, i tre casi di MPL sono
stati omessi dall’esame) durante un follow up medio di circa 10 anni (età media
dei pazienti arruolati: 34 anni).
E’ da rilevare preliminarmente
che a 15 anni dalla diagnosi la sopravvivenza generale è stata del 99.3% nei
pazienti affetti da trombocitemia essenziale e del 100% in quelli affetti da
mielofibrosi prefibrotica: a differenza di altri studi, basati principalmente
su pazienti con un età media di 60 anni, non si sono ravvisate differenze significative
né dal punto di vista del decorso della malattia libera da progressione in
mielofibrosi (94.7% nei casi di TE rispetto al 100% nella preMF a 15 anni), né
da quello di complicanze emorragiche (presenti nel 6.4% dei pazienti con TE,
rispetto all’11.1% dei pazienti con pre MF); significativa, invece, la
differenza nell’incidenza di eventi trombotici registrati: 13.9% nei casi di TE
vs il 34.4% nei pazienti con pre MF: l’analisi incrociata di tali dati ha
permesso agli autori dello studio di individuare la Combined Event Free Survival di tali pazienti (vale a dire la possibilità
di non subire alcuno dei tre eventi di rischio) ed è risultata dell’80.9% nei
pazienti con TE rispetto al 65.6% nei pazienti con pre MF.
L’analisi dei pazienti ripartiti
per status mutazionale ha consentito di individuare un tasso di incidenza di
eventi trombotici, a 15 anni dalla diagnosi, del 22% nei pazienti JAK positivi,
a fronte del 9% circa dei pazienti con mutazione CALR, in linea con studi
precedenti; tuttavia, come già emerso in altre pubblicazioni scientifiche,
nessuna differenza di sopravvivenza è stata ravvisata a 20 anni dalla diagnosi
nei due sottogruppi (96% nei JAK positivi e 100% nei CALR), né una diversa
incidenza di evoluzione in mielofibrosi o leucemia acuta (il tasso complessivo
registrato nella coorte di pazienti è stato del 3% a 15 anni e del 13% a 20
anni).
Di particolare interesse si è
rivelata la circostanza che nessuno dei 28 c.d. “tripli negativi” (cioè
pazienti privi sia della mutazione JAK, che della CALR e della MPL) abbia
subito un evento di rischio, per una Combined
Event Free Survival del 100%: questi dati sono in linea con altri studi più
recenti, dove inizia a delinearsi la motivata convinzione che alcuni di questi
pazienti possano avere una forma di trombocitosi non clonale e/o ereditaria e
non siano quindi da ritenere affetti da TE (sebbene in altri studi siano state
segnalate mutazioni minori di JAK2 e MPL in una minima parte di pazienti
“tripli negativi”).
Infine, circa il 5% dell’intera
coorte ha sviluppato una seconda neoplasia: sebbene l’intervallo di tempo sia
stato notevolmente lungo dalla diagnosi iniziale di trombocitemia essenziale /
mielofibrosi prefibrotica (circa 16 anni), la maggior parte dei pazienti aveva
meno di 55 anni alla seconda diagnosi; tuttavia, considerando il tipo di
neoplasia, nessun aumento del rischio è stato ravvisato e tutti i pazienti sono
sopravvissuti ad essa, sebbene appaia evidente l’impatto a lungo termine che
una malattia mieoloproliferativa comporta se diagnosticata in giovani pazienti.
Sarebbe auspicabile, al fine di una corretta gestione
di tali pazienti che sappia tener conto delle complicanze a lungo termine della
malattia, ripensare gli approcci terapeutici alla luce delle recenti e
promettenti scoperte cliniche e molecolari, al fine di stratificare con maggior
precisione il rischio trombotico nei singoli pazienti, selezionare con maggiore
accuratezza chi necessita di un trattamento citoriduttivo e chi può essere
invece monitorato senza alcun intervento farmacologico, e soprattutto, aspetto
di importanza fondamentale per un giovane paziente con diagnosi di neoplasia
mieloproliferativa cronica, cercare di rallentare la progressione della
malattia: numerose, in quest’ultimo ambito, le evidenze circa la capacità
dell’interferone (specialmente se a basse dosi, più tollerabili, e nelle sue
modalità a lungo rilascio) di ottenere risposte cliniche e molecolari complete
nei pazienti, con ciò suggerendo la diffusa convinzione, sempre più condivisa
dalla comunità scientifica internazionale di poter agire efficacemente (e
precocemente) sulla storia naturale della malattia.(D.S.)
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